L'autore Carlo Coppelli incontra i Licei pisani
Le Officine Garibaldi di Pisa presentano “La cornice e lo
specchio, riflessioni ed esperienze di terapia nei luoghi dell’arte”, l’ultimo libro scritto dal prof. Carlo Coppelli per le Edizioni
ETS. L’interessante appuntamento è in programma venerdì 10 maggio alle 18 in
via Gioberti a Pisa.
Oltre allo scrittore saranno presenti i dirigenti scolastici dei
migliori Licei pisani, ossia la prof.ssa Gaetana Zobel del Liceo Artistico
“Franco Russoli", il prof. Andrea Simonetti del Liceo Scientifico “Ulisse Dini”
e la prof.ssa Sandra Capparelli del Liceo Musicale “Giosuè Carducci”.
La cornice e lo specchio, quindi, affronta il delicato argomento dell’arte
come comunicazione, terapia, relazione, aiuto e soprattutto conoscenza di sé e
del mondo che ci circonda, dei vari e diversi luoghi dell’arte, delle
molteplici sue declinazioni nella didattica, nell’etnografia, nella percezione
visiva e nella psicologia.
Per le lettrici ed i lettori di Cactus 2.0 abbiamo deciso di
pubblicare un’intervista al prof. Coppelli raccolta da Gianluca Garrapa per Psychiatry
on line Italia, la prestigiosa rivista scientifica in rete dal maggio 1995.
Buona lettura.
INTERVISTA A CARLO COPPELLI
Autore del saggio La cornice e lo specchio - Riflessioni ed
esperienze di terapia nei luoghi dell’arte" Edizioni Ets. Intervista del dott. Gianluca
Garrapa.
La cornice e lo specchio - Riflessioni ed esperienze di
terapia nei luoghi dell’arte, è un saggio, ma non solo, sulla capacità
terapeutica dell’arte. Il percorso che l’autore ci invita a intraprendere è di
per sé un laboratorio esperienziale. Come il sottotitolo recita Riflessioni ed
esperienze di terapia nei luoghi dell’arte, il libro ha una forte connotazione
personale riguardo alla pratica arteterapica e ci guida in luoghi molto diversi
tra loro.
Dall’interno dei musei, alle scuole, alle città, alle case e le
carceri.
Attraverso interviste, considerazioni, recensioni di mostre, l’autore
ci spiega il perché e il come l’arte possa essere anche terapia, con un occhio
rivolto al sociale e all’aspetto civile dell’arte.
Di seguito alcune domande
all’autore.
Gianluca Garrapa: La
cornice e lo specchio: ci spiega l’origine del titolo e a chi potrà essere
utile il suo libro?
Carlo Coppelli: Il titolo è ripreso da una rassegna iniziata
circa 15 anni or sono alla Galleria Civica di Modena e concordata dall’allora curatrice
Angela Vettese. Si trattava di un calendario annuale con un incontro al mese,
tenuto all’interno degli spazi espositivi dove periodicamente venivano proposte
mostre d’arte contemporanea.
In questi incontri si sviluppavano laboratori espressivi con
un metodo particolare che io definisco di “arteterapia a suggestione
iconologica”. In definitiva, un modo per aiutare la comunicazione fra sé e gli
altri utilizzare il luogo dell’arte e l’opera come linguaggio visivo in grado
di agevolare i processi di rispecchiamento, identificazione e proiezione. Per
specchio, perciò, possiamo intendere la relazione di sguardi fra noi e
l’immagine che osserviamo e per cornice, la connessione che riusciamo ad
attivare attraverso il gioco espressivo condiviso con altri.
Penso che il libro potrebbe risultare utile a chiunque si
occupi della relazione di aiuto (operatori socio-sanitari-assistenziali,
educatori, psicoterapeuti), o di arte (artisti, galleristi, operatori museali),
ma pure a genitori, semplici curiosi e a chi è interessato all’arte come forma
di comunicazione.
G.G.: In questo
senso, l’operatore artistico che opera nella relazione di aiuto, può
considerarsi un alchimista e praticare una forma seppur limitata, di
sciamanesimo: mi sembra di capire che per lei, l’arteterapia non sia solo e
esclusivo dominio dell’immagine, (quella del vedere è anche un’arte, un ascolto
per gli occhi, molto differente dal meccanico udire o guardare: vedere deriva
da videre: la cui radice etimologica, come scrive l’autore, è rintracciabile
anche nel greco antico, nel verbo oida, che significa “sapere”, sarebbe
interessante capire che tipo di sapere è quello della visione e quali possono
essere i limiti e le impossibilità della parola quando vuole traghettare le
emozioni legate all’arte della pittura), e può rivolgersi anche agli ipovedenti
o a chi è affetto da cecità, lavorando in una direzione multisensoriale che
integra varie discipline artistiche, un po’ come in quelle équipe di cui
scriveva nel 1961 l’antropologo Ernesto De Martino, nei resoconti sulla Terra
del rimorso, a proposito del fenomeno del tarantismo; che ci può dire a
proposito?
C.C.: “Solve et coagula” era il motto degli alchimisti ed è
un po’ il senso di questi laboratori, nella consapevolezza che non sia
sufficiente un luogo fisico e un insieme di persone per creare comunità e che
una comunità accogliente, in grado cioè di agire e vivere insieme ha bisogno di
comprendersi e di condivisione al proprio interno. Sulla necessità d’integrare
i linguaggi poi, l’antropologia culturale e, più recentemente,
l’etnopsichiatria, hanno documentato una ricca e antichissima tradizione di
pratiche curative basate sull’uso di strumenti artistici. Non solo quelli
visivi, come saremmo indotti a pensare dall’uso del termine “Arte”, ma anche attraverso
l’effetto amplificatore delle connessioni fra arte visiva, danza e movimento
corporeo, musica e sonorizzazione, drammatizzazione e teatro. Linguaggi, non a
caso, utilizzati nelle cosiddette “artiterapie” (danzamovimentoterapia,
teatro/drammaterapia. musicoterapia e arteterapia.) In questo contesto, trovare
connessioni con gli studi di De Martino è quasi inevitabile. Attraverso l’uso
di tecniche espressive modulari, colori, materiali (non necessariamente solo
“artistici”), giochi di ruolo, forme recitative, gli effetti rievocativi della
musica, movimento corporeo, ecc., e feedback, è possibile dare voce, ad
esempio, anche a quei soggetti poco disinvolti dal punto di vista verbale e
creare un clima collaborativo ed empatico.
G.G.: Si potrebbe dire che è attraverso l’immersione nell’oscurità
degli abissi (del proprio inconscio e preconscio, ma anche, semplicemente della
propria incoscienza o inconsapevolezza) che è possibile ascendere a una nuova
luce: nel suo libro lei affronta il tema del viaggio, viaggio nel caos
interiore e corrispettivo viaggio geografico nella barbarie urbanistica che ha
debellato l’estetica dei luoghi. Costruisce una mappa degli ambienti inconsci,
e delle strutture urbane, ritorna l’idea della casa come luogo dell’Io, ma anche
interessanti riflessioni sulla psicogeografia dei luoghi: lei si chiede se
nelle nostre città, esiste una correlazione fra estetica, ed etica delle
comunicazione, ecco: che rapporto ha l’arteterapia con gli spazi urbani e
extraurbani?
C.C.: L’arte, nelle
sue valenze di chiaroveggenza ed esortazione, ha sempre avuto la capacità di
anticipare certe direttive che la società avrebbe preso, magari a distanza di
tempo: l’espressionismo tedesco dopo la prima guerra mondiale, il situazionismo
nel secondo dopoguerra, la body art e la street art in anni più recenti, tanto
per fare qualche esempio, sono movimenti artistici che hanno tratto la loro
linfa vitale dalle contraddizioni di un territorio urbano cresciuto a dismisura
secondo le sole regole della ragione economica. Ma l’arte, intesa come
necessità estetica, non può limitarsi a rappresentare la disfunzionalità, bensì
dovrebbe recuperare la sua funzione sociale, intesa come linguaggio (o
meta-linguaggio) comprensibile e fruibile. Quando porto un gruppo a visitare un
sito o un luogo d’arte, ma anche quando si visita uno spazio compromesso dal
punto di vista estetico, occorre fare un’operazione di connessione e risonanza
e anche diventare, come diceva Marc Augé, degli antropologi in metropolitana.
Questa connessione e connotazione diventa un modo necessario per unire l’IO al
NOI, cercando di uscire dalla spirale perversa del modello individualistico e
narcisistico imperante. Non è un caso che molti studiosi, recentemente, abbiano
parlato di “mindscape”, ovvero di paesaggio mentale... ma in questo caso il
discorso si dilaterebbe e per ragioni di sintesi mi fermo.
G.G.: Ci racconta
come avviene un suo laboratorio e in particolare che rapporto lega la storia
dell’arte e la storia della cura attraverso l’arte nei diversi ambienti:
scuola, carcere, comunità, musei?
C.C.: Posso riportare la traccia di un laboratorio
effettuato presso il museo Burri agli ex essiccatoi di tabacco di Città di
Castello qualche anno fa; il titolo era “Il rosso e il nero”: presentazione dell’iniziativa e breve orientamento degli spazi e delle opere esposte a cura
di un incaricato del museo Burri. Breve training motorio con fantasia guidata e
giochi di contatto all’interno di una sala espositiva. Visita individuale alle
opere esposte e “adozione” di un quadro esposto; osservazione e
rispecchiamento; ricerca di contatto con l’immagine ed elaborazione
grafico-pittorica di risposta:
- Partire dalla parte rossa o dalla parte nera del lavoro e continuare lavorando solo sullo stesso colore;
- In una seconda parte, eventualmente, inserire un elemento del colore mancante (o rosso, se il lavoro è stato fatto solo con materiali neri, o viceversa). Esposizione del proprio elaborato davanti al quadro d’ispirazione e feedback conclusivo.
Per ciò che riguarda la connessione fra storia dell’arte e
storia della cura, le applicazioni nei diversi ambienti, ne parlo diffusamente
nel libro, quindi sarà sufficiente leggerlo. Per rispondere in maniera
sintetica alla domanda dovrei scrivere un altro capitolo.
G.G.: In un libro di
racconti dello scrittore americano George Saunders, dal titolo Bengodi, edito
da Minimum fax qualche annetto fa, le storie erano ambientate in parchi a tema
americani. Che ne pensa e che rapporto vede tra l’arteterapia e questa tendenza
di ricostruire un passato o un luogo all’interno di uno spazio, snaturandone le
caratteristiche? E che ci può dire dei visionary environments e cosa è un
Ecomuseo?
C.C.: Nel primo caso dovremmo coinvolgere l’aspetto
rievocativo di un luogo “segnato” come un parco a tema, cioè comprenderne la
valenza coinvolgente. Ci sarebbe anche da ricordare quanto questi luoghi siano
spesso effimeri, mantenuti in vita dalla flebo di mode, pubblicità, motivazioni
commerciali, quindi gusti destinati a finire abbastanza rapidamente.
La Long
Island cantata da Van Morrison, per il cantautore è il luogo della nostalgia di
un’altra età, contenitore della rêverie. I parchi storici sono intrisi di altre
atmosfere, “egualmente commestibili”. In fin dei conti quando entriamo in un
sito è come se entrassimo in un quadro alla stregua del turista giapponese che
visita il museo Van Gogh ed entra letteralmente nell’opera nel film Sogni di
Kurosawa. Perciò non parlerei di snaturamento, si tratta invece di utilizzare
il genius loci di un luogo per ritrovare una parte frammentata di noi.
Quando si parla di visionary environments occorre invece
entrare in contatto con la materializzazione di un mondo personale in maniera
più esplicita e meno mediata da fattori storico-culturali rispetto a un museo o
parco. Se dovessi anche in questo caso riferirmi a una suggestione filmica,
citerei Viaggio allucinante, un vecchio film di R. Fleischer, nel quale un
sommergibile miniaturizzato entra nel corpo umano. Di corpo umano, infatti, si
tratta quando entriamo in un luogo fantastico elaborato in molti anni da un
postino, da un muratore, da un inserviente.
Questo spinge necessariamente al
confronto anche con il nostro mondo interno.
G.G.: Lo spazio fisico (topos), quello virtuale (mythos), lo spazio
sociale (ghenos) e quello mentale (logos). Un altro elemento fondamentale da
lei affrontato è il tema del viaggio, delle transizioni anche tra i diversi
spazi, dei confini, e anche la pelle, in qualche modo, è un confine tra dentro
e fuori, con tutti i suoi simbolismi e le pratiche sottese, dalla body art alle
patologie alimentari che la deformano. In che ottica la metafora e la pratica
del viaggio e del confine sono parte integrante di un processo arteterapico?
C.C.: Mi sembra di aver già parzialmente risposto a questa
domanda in una precedente risposta, comunque vorrei riportare, per libera
associazione, due frasi attribuite a Freud: L’Io non è padrone in casa propria
e L’Io è innanzitutto un’entità corporea.
In definitiva noi tutti, avendo un
inconscio, possediamo un altro diverso e uguale da noi con il quale dobbiamo
rapportarci; allo stesso tempo siamo portatori di un corpo e di una pelle che
ci permette il contatto con chi è simile ma diverso da noi.
Con questi
presupposti è intuibile come viviamo un costante “corpo a corpo” fra questi
aspetti duali di dentro e fuori, di vicino e distante, d’identità e differenza.
Quella del viaggio è certamente una metafora, ma è anche la realtà di un
percorso inevitabile per raggiungere una qualsivoglia forma di equilibrio.
G.G.: Per non parlare poi dell’annosa
questione di un riconoscimento anche giuridico che questa figura professionale
necessiterebbe, a differenza dei paesi anglosassoni: a cosa si deve, secondo
lei, tale ritardo?
C.C.: Infatti, in
Italia, non esiste un albo professionale o un “Ordine degli Arte Terapeuti” o
qualsiasi altra regolamentazione istituzionale e giuridica del ruolo. Questa
situazione ha partorito una serie di problemi che sarebbe urgente affrontare.
Tanto per iniziare, la proliferazione di professionisti, semiprofessionisti e
“apprendisti stregoni” dalle qualifiche e formazioni alquanto eterogenee e,
sovente, improvvisate, i quali elargiscono la loro opera spesso senza parametri
di riferimento (operativi, concettuali, tariffari ecc.) accettabili e accertabili,
creando un’oggettiva confusione di mercato e contribuendo sostanzialmente a una
discutibile nomea dell’arteterapia soprattutto presso i servizi che dovrebbero
accogliere la loro opera.
Le ragioni, da un lato, del mancato riconoscimento
istituzionale di questa figura professionale e dall’altro, dell’assenza di una
teorizzazione complessiva credibile sono molteplici. Come esigenze di tipo
corporativo: evidentemente, in Italia, chi è titolare di un ordine
professionale non vede di buon occhio l’istituzione di altri ordini aventi
similitudini, la concorrenzialità professionale appartiene alla storia del
nostro belpaese, dal Medioevo in poi.
Questa situazione è per altro condivisa
con tutte le cosiddette medicine naturali o cosiddette alternative. O anche
un’innata predisposizione alla parcellazione, al frazionamento, anche questa
figlia della nostra particolarità nazionale e facilmente riscontrabile, si
pensi all’ambito politico, culturale, scientifico ecc.
Infine a una mancata
definizione di tipo linguistico, infatti, la presenza di una parola composta:
“arte e terapia” porta, necessariamente, a dover armonizzare i due termini.
G.G.: Terminerei l’intervista rivolgendole gli
stessi quesiti che lei si\ci pone nel suo libro: per concludere questo
sintetico contenitore problematico si pongono due ultime domande. Come può
l’arte terapia scalfire l’intonaco e scoprire l’affresco nascosto?
C.C.: Permettendoci
di giocare con le immagini, quindi di immaginare, quindi di metterci in gioco.
intervista tratta da http://www.psychiatryonline.it/node/7913
approfondimenti
- http://www.edizioniets.com/scheda.asp?n=9788846753649&from=&fk_s=#tab1
- http://www.edizioniets.com/evento.asp?e=372
- https://bibliolandia.comperio.it/library/pisa-blog-officine-garibaldi/cal/presentazione-del-libro-la-cornice-e-lo-specchio-di-carlo-coppelli/
- http://www.shmag.it/cultura/libri/11_03_2019/giovedi-ad-alghero-la-presentazione-del-libro-di-carlo-coppelli-la-cornice-e-lo-specchio/
- https://www.officinegaribaldi.it
- https://it.wikipedia.org/wiki/Arteterapia
- https://www.lifegate.it/persone/stile-di-vita/esprimersi_con_l_arteterapia1
- https://liceoartisticorussoli.edu.it/presentazione-del-libro-la-cornice-e-lo-specchio/
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