VEGLIA scritto da Roberto Zeni, classe 5 B, Cascina | RACCONTO



VEGLIA

Capita, per uno strano gioco del destino, che alcune persone si ritrovino a dover fronteggiare mali che hanno sempre più cause del necessario.  

Finalmente ho ricevuto una tua lettera, Teresa, la prima da quando mi trovo qui. Pensa, ancora prima di aprire la busta, le mani hanno cominciato a tremarmi. Ho persino pianto, pateticamente. Trovo inutile, arrivati a questo punto, chiederti scusa per non essermi fatto avanti per primo. Ho notato tuttavia, leggendo - e di questo credo tu me ne possa dare atto- una scrittura formale, fredda. 
Inoltre nella lettera non fai mai riferimento a mamma o a papà. 
Come stanno? 
Sono sempre arrabbiati con me? 
Immagino di sì, come lo sarai anche tu del resto. 



Ti sono comunque immensamente grato di avermi scritto perché da parte mia, cominciare questa corrispondenza, sarebbe stato quantomeno impossibile, considerato il disagio e il terrore che avrei avuto nel leggere una tua risposta, sebbene non siano certo mancati i tentativi.                                                                                                         
Succedeva più o meno così: ogni notte, quando credevo di essermi già calato nel più profondo dei sogni, venivo svegliato da una voce interiore che mi spingeva a trovare le parole giuste e il coraggio per chiederti scusa. Fortunatamente, l’aver ricevuto una tua lettera, renderà la mia scrittura più libera, in questo modo potrò raccontarti senza troppi fronzoli le ragioni per le quali mi trovo qui, nel carcere Don Bosco.   


                                                                                                               
Ma andiamo con ordine. Per i tuoi undici anni, gli zii ti regalarono un set di matite. Sognavi un giorno di diventare una pittrice famosa. (Scrivo “sognavi” perché non ti vedo ormai da due anni, e nel frattempo, non so se hai cambiato aspirazione). Lo stesso giorno mi chiedesti di posare per un ritratto. Lo avevi finito in pochi minuti giustificandoti: “è soltanto una prova non guardarlo così, fa schifo lo so”. “È bellissimo”, ti avevo rassicurata. 
Il tratto era deciso come quello di una ritrattista già formata. Mi avevi raffigurato con una capigliatura strampalata contornata da una linea spessa sopra i ciuffi riccioluti.
E questa?”. 
È un’aureola, non vedi?” mi avevi risposto tu. 
L’ho messa perché tu sei buono e non ti arrabbi mai”. 
Poi ti eri avvicinata il lembo della mia camicia premendolo con forza tra le dita: 
Promettimi che non cambierai mai, che resterai per sempre così, buono, me lo prometti?”. 
Nel pronunciare la parola “buono” le tue guance si erano incavate all’altezza delle gengive increspando le labbra. 
Che buffa sei stata. 
Certo!” fu l’unica cosa che riuscii a risponderti, dopodiché spensi la luce e ti accompagnai a dormire. Quella sera non riuscii a prendere sonno. Vedevo nella tua preghiera un impedimento troppo grande, una delusione che ti sarebbe piombata addosso, come una tegola pronta a cedere all’improvviso. 



Arrivo al dunque. Per forza di cose dovrò ricondurre tutto a quel pomeriggio di aprile. Ecco in breve: stavo camminando lungo i portici di Borgo stretto quando la mia attenzione venne catturata da un bar con all’interno degli orribili divanetti scamosciati nei quali stavano sedute, a fare salotto, delle tardone sulla settantina. 
Desidera?” mi aveva poi chiesto il barista prima che potessi rendermene conto. 
A quel punto, credo di aver farfugliato qualcosa di incomprensibile, sta di fatto, che in men che non si dica, posò davanti al bancone una bevanda analcolica, delle noccioline, e un caffè. Ingurgitai tutto lentissimamente mentre cercavo il coraggio per confessargli di non avere i soldi per pagare.  
E quando finalmente trovai un filo di voce e il tono giusto per dirglielo, mi cacciò fuori a pedate.                                                                                                     



Ecco, proprio in quell’istante, con il culo stampato da un quarantasei di piede, capii la nostra condizione. “Chi nasce povero muore povero” diceva sempre nonno, ricordi?                                                             
Ed io la conoscevo bene quella frase: non era certo la prima volta che vivevo un’umiliazione simile. Quando feci per rialzarmi, il riflesso del mio corpo sulla vetrina mi fece notare alcune somiglianze nei nostri atteggiamenti come, ad esempio, il tenere la testa bassa o i pugni stretti alla vita durante un momento di agitazione. Temetti per te quella violenza fastidiosa che prende il nome di condizione sociale, inevitabilmente presente, sempre e comunque.

In parole povere, quella riflessione aveva generato in me chissà quale senso di rivalsa al punto da spingermi, senza pensarci, a rientrare nel bar per rubare la borsa di una signora girata di spalle. Un attimo dopo stavo già correndo con la refurtiva inseguito dagli uomini del locale.                                                                                                                                      
Non mi presero per un soffio. Era stata la mia corporatura magrolina a salvarmi: mi ero infilato in uno spazio strettissimo tra due muri, mentre loro avevano continuato a cercarmi. 
Ero finalmente solo, forse non ancora al sicuro, e dentro morivo di vergogna per ciò che avevo fatto. Aprii la borsa per cercare il documento. 
Volevo restituire tutto. 
Tra le mie dita il portafoglio si aprì come un ventaglio colorato: c’erano almeno seicento euro dentro.


                              
Ora, Teresa, io sapevo bene che tutto ciò che avevo commesso era quanto di più sbagliato e immorale- e non voglio certo giustificarmi dicendo quello che sto per scrivere- ma un ragazzo di vent’anni, senza un lavoro fisso, con una situazione familiare come la nostra, che per giunta è stato appena preso a calci per l’impossibilità di pagare il conto di un bar, come può anche solo per un secondo, non sentirsi attraversato dall’idea di tenersi quel piccolo grande tesoro?
Ero diviso in due: da una parte il mio senso civile ed etico che mi spingeva a costituirmi, a chiedere scusa, a vergognarsi. 
Dall’altra, un ingiustificabile presentimento che mi suggeriva che avrei speso quei soldi per scopi sicuramente più nobili rispetto a quelli di una tardona ingurgita tartine.
Così, alla fine, vinse la mia parte ingiustificabile: arrotolai le banconote, e le ficcai nella tasca dei jeans. Ripresi fiato, e me ne tornai a casa.  Nei giorni successivi, se ben ricordi, trovasti sopra al tuo letto una valigetta di colori ad olio. 
Questo che ti ho raccontato, però, fu soltanto l’inizio del germe che mi avrebbe spinto in seguito a credere che avrei ribaltato la nostra situazione economica continuando ad agire in questo modo. 
A quel furto, infatti, ne seguirono altri, tutti finalizzati alla realizzazione di un’idea di famiglia perfetta che mi ero illuso di poter costruire attraverso i soldi. (Ovviamente a mamma e papà dovetti inventare scuse plausibili come la vincita con un gratta e vinci e così via). 

Stavo bene nel vedere mamma soddisfatta di poter invitare improvvisamente degli amici a cena, papà un po’ più rilassato, e tu che diventavi sempre più brava nello sperimentare nuove tecniche pittoriche. Stavo bene, sì, ma un attimo dopo precipitavo nell’abisso più buio del mio senso di colpa.                                                                             

                       
Così, i giorni passarono senza che me ne potessi accorgere, benché qualcosa in me cominciasse a dare i primi segnali di cedimento. Cominciai a percepire giornalmente, ad esempio, un forte mal di stomaco che sembrava dovesse evolversi in un rigurgito. Soltanto in seguito capii che si trattava di uno stato di ansia e di stress. Speravo potesse svanire tutto in un’enorme pozza di sudore come quando si è svegliati da un incubo. E invece rimanevo lì, tremante, incapace di sorreggere quel poco di dignità priva di carattere che mi portavo addosso come il residuo inutile di una muta. E la cosa peggiore, era che continuavo ad essere, nel tuo immaginario, il fratello maggiore perfetto, quello giusto, buono, che trasfiguravi nei tuoi dipinti come l’angioletto con l’aureola. Ero talmente distante adesso da quell’idea che ti eri fatta di me tanti anni prima. Non soltanto non avevo mantenuto la nostra promessa, ma stavo anche tradendo tutta la fiducia che avevi riposto in me, essendo diventato a tutti gli effetti un ingiusto, un bugiardo o, come avresti detto più semplicemente tu, un cattivo.   
Pochi giorni più tardi mi arrestarono. Preferisco sorvolare sull’argomento a causa dello spazio limitato di cui dispongo nel foglio.          

                                                                                                   

   
 Sarò breve: in una conversazione con un amico, Franz Kafka dice più o meno questo: 
“Gli uomini diventano cattivi e colpevoli perché parlano e agiscono senza figurarsi l’effetto delle loro parole e delle loro azioni. Sono sonnambuli, non malvagi”.
 Ecco, se a ciò corrispondesse il vero, dovresti credermi se ti dicessi che, uscito di qui, per te sarei pronto a vivere un’interminabile veglia.
Aspetto con ansia una tua risposta, nel frattempo ti abbraccio teneramente.

Scritto da Roberto Zeni, classe 5 B, Cascina

Racconto vincitore della seconda edizione del concorso letterario "Parole in Corso 2016",
Professoressa Laura Caramatti, referente del Liceo Artistico Franco Russoli di Pisa e Cascina.

Immagini tratte dalla rete.

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